Un battito d’ali in Oriente può causare un terremoto in Occidente

Febbraio, si sa, è il mese delle settimane della moda invernale. Le passerelle si riempiono di future tendenze, Milano, Parigi, New York e Londra pullulano di eventi e fermento. E proprio in questo momento dell’anno è bene fare alcune riflessioni su questo settore, che è uno dei motori principali del Made in Italy e che per la prima volta vola sopra i 100 miliardi di fatturato (+16% sul 2021 e +9% sul 2019, dati Confindustria Moda).

In termini generali, nel 2022 i beni personali di lusso, cresciuti a qualsiasi livello, hanno registrato le performance migliori; a seguire troviamo il design di alta gamma e i wine&spirits. I viaggi e gli hotel di lusso non hanno ancora raggiunto i livelli pre-pandemia, ma la voglia di viaggiare è sicuramente molta.

In passato il settore del lusso personale è stato trainato dalla Cina, con un tasso di crescita annuo che si aggirava intorno agli 8 punti percentuali (la media mondiale si attestava al 4%). I cinesi erano soliti spendere solo la metà della loro spesa nel mercato domestico; il restante 50% veniva lasciato in Europa, dove trovavano prezzi assai più vantaggiosi.

Il Covid-19 e le prolungate chiusure ad esso legate hanno bloccato una crescita quinquennale, cambiando gli equilibri e spostando il baricentro. Mentre le vendite di beni di lusso in Cina hanno subito complessivamente una contrazione del 10% su base annua nel 2022, portando l’Asia a livelli più bassi della media del totale mercato, gli Stati Uniti crescono, nello specifico più del doppio della Cina (dati BCG).

La Cina rimane comunque un pilastro per la crescita del lusso, avendo un numero maggiore di consumatori a medio e alto reddito che si prevede raddoppierà entro il 2030. Con la riapertura cinese, dunque, ci si può aspettare che la situazione andrà via via normalizzandosi e probabilmente si passerà ad un mercato con due motori di crescita entrambi funzionanti in parallelo, così dando vita ad una crescita abbastanza equilibrata tra est e ovest. Ma due elementi saranno decisivi: l’effettiva ripresa dei viaggi dei consumatori cinesi e l’impatto della recessione sul consumatore medio in USA e in Europa.

Questo era il focus dell’evento tenutosi il 31 gennaio scorso e intitolato Shifting from East to West: the new competitive scenario for Fashion & Luxury industry promosso dall’American Chamber of Commerce in Italy.

Ma se zoomiamo passando dal macro al micro, concentrandoci sul nostro Paese e, ancora più nello specifico, puntiamo l’obiettivo sul mondo retail notiamo molte più sfaccettature. Si tratta di una grossa fetta della catena del valore della moda, la parte finale per la precisione, che si trova ad affrontare un orizzonte poco chiaro e incerto. Parliamo di 178.127 negozi di moda, tessile, abbigliamento, calzature, pelletterie e accessori in cui operano 293.497 addetti, riuniti sotto al grande cappello della Federazione Moda Italia.

È certo che il blocco del commercio asiatico sopra citato abbia enormemente inficiato le vendite dei nostri distributori, ma non bastano gli americani per gestire le perdite. La guerra russo-ucraina ha ulteriormente aggravato la situazione, bloccando il commercio verso altre due regioni che pesavano circa il 14% del turnover totale. Tutto questo ha portato, come ben sappiamo, all’aumento dei prezzi delle materie prime (in shortage), del carburante e dell’energia, arrivando ad un aumento dei costi del +25%. I retailer, di conseguenza, si sono trovati costretti ad aumentare i prezzi dei prodotti finali. Ma lo hanno fatto in un paese in cui gli stipendi non seguono l’inflazione e l’aumento delle spese, portando ad una notevole riduzione della capacità d’acquisto della popolazione.

Le soluzioni ad un problema endemico possono essere varie, ma di certo non immediate. Agli alti vertici si può richiedere un ridimensionamento della tassazione, un’agevolazione sulle assunzioni, la riduzione della burocrazia, uno sconto su carburanti ed energia. Ma nell’attesa che tutto ciò (forse) avvenga, in quanti sarebbero costretti a chiudere? Quante famiglie si troverebbero in difficoltà?

E allora ci si rimbocca le maniche e chi riesce a strutturarsi sviluppando il canale online (ricordiamo che tra pre e post-Covid i retaler italiani con un e-commerce sono passati dal 14,6% al 52%) prova a penetrare mercati freschi e floridi come gli Emirati Arabi Uniti, Taiwan e la Tailandia attraverso campagne mirate. Chi ha la capacità di fare un passo ulteriore diversifica, puntando su altri modelli (come, per esempio, chi dal ready-to-wear passa al mondo dello sport) o su altri business, magari aprendo un ristorante in città, un agriturismo in campagna o uno stabilimento balneare al mare.

Per fare tutto ciò, però, prima di tutto ci vogliono le capacità manageriali, altrimenti si rischia di peggiorare ulteriormente la situazione. Questo è il nostro compito, il nostro lavoro, la nostra passione e siamo orgogliosi di poter raccontare molti casi di successo, come ad esempio il progetto Italian Fashion towards Dubai, una iniziativa di formazione e consulenza integrata per PMI appartenenti al settore della moda che aveva l’obiettivo di avvicinare le aziende del Made in Italy al mercato degli Emirati Arabi Uniti. O ancora, gli interventi di affiancamento e consulenza per l’efficienza in azienda, come la gestione dei costi o la costruzione del cruscotto aziendale, un utile strumento di controllo di gestione che offre una visione dettagliata e precisa dell’andamento dei processi.

Noi di Roncucci&Partners aiutiamo le imprese a sviluppare se stesse e il loro business, ad abbracciare i cambiamenti e ad evolversi e prosperare in un mondo complicato, insidioso e che richiede moltissime competenze.

 

 

Valentina Gestri Paolucci

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